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Soft skills - Insegnare a lavorare insieme

Negli Stati Uniti c'è la tendenza a descrivere il lavoro di gruppo come un modo per aumentare la produttività. In Giappone, invece, la tendenza è quella di descrivere questa attività come un modo per incrementare le abilità e le conoscenze delle persone. C'è una differenza piuttosto sostanziale. J. Aral (Executive giapponese) 

La cultura giapponese, e la stessa aria che respirano, sono orientati alla collaborazione.

Non è così per noi europei. Trasformare un certo numero di figli unici, viziati, individualisti, in team non è impresa facile, ma in linea di massima è più semplice creare gruppi di lavoro tra gli studenti che tra gli insegnanti. Non so se sia consolante: è un dato di fatto.

Esistono numeroso possibilità per insegnare a lavorare insieme, dai gruppi di studio di sessantottina memoria a tecniche più moderne e più strutturate.

Anche i puzzle, la caccia al tesoro, l’orienteering, lo scarabeo, possono essere giochi di team bulding, come tutti i giochi di squadra, come la pallavolo o la pallacanestro.

Vi invito anche a dare un’occhiata al sito http://www.metalog.it dove sono riportati numerosi strumenti pratici, e la spiegazione per il loro uso, che vengono utilizzati nelle aziende, nelle scuole e nelle comunità per sviluppare specifiche soft skills e apprendere diversi comportamenti utili. Credo che possiate trarne qualche spunto.

Ma perché questa ondata di pubblicità?

Vi dico subito che non ho interessi, non vendo questi strumenti. La realtà è che, e questo vale per tutte le soft skills che abbiamo esaminato, “non si insegna quello che si sa o quello che si crede di sapere: si insegna e si può insegnare solo quello che si è.” Jean Joseph Marie Auguste Jaures.

Insegnare a lavorare in gruppo significa entrare in un mondo di luoghi comuni e abitudini consolidate (ovunque si parla di team working e gli adolescenti vivono in gruppo, talora in branco) ma scontrarsi con difficoltà educazionali e culturali. Insomma: è la capacità più difficile da insegnare. Ed è insegnabile solo quello in cui l’insegnante crede profondamente e solo quello che mostra costantemente con il suo esempio.

Non posso darvi regole precise: l’unico vero punto di partenza siete voi. Se gli insegnanti di un comprensivo collaborano, gli studenti impareranno a lavorare in gruppo meglio e più rapidamente di un analogo gruppo di studenti con un insegnante ferratissimo sull’argomento, pronto a guidare esercizi, ma che evita accuratamente di mischiarsi con i colleghi.

Se volete insegnare ai vostri studenti a lavorare in gruppo, cominciate a farvi un’analisi di esperienze positive in cui voi avete collaborato: ricordatene i motivi, le risorse necessarie, le emozioni provate, le difficoltà superate e i risultati ottenuti. Troverete sicuramente occasioni per far riprodurre queste esperienze alla classe.

Poi, alcuni elementi base.

  • Un gruppo funziona se tutti guardano verso un punto di arrivo condiviso. Funziona meno se tutti si guardano in faccia.
  • Un gruppo funziona se ciascuno riconosce qualcosa di positivo in ciascuno degli altri.
  • Per questo spesso è opportuno iniziare un gruppo di lavoro facendo una sorta di gioco, in cui ogni partecipante indica qualcosa che gli piace, una caratteristica positiva, per ciascun membro del gruppo. Meglio se la dichiarazione è anonima (non si sa chi abbia apprezzato quella caratteristica).
  • Difficilmente, invece, un gruppo funziona se ciascuno è impegnato a far sì che gli altri gli riconoscano una specifica dote (ad esempio: tutti devono pensare che sono proprio bravo): questo comportamento (molto frequente, credetemi!) è fonte di frustrazione per chi lo esprime e di estremo disturbo per il gruppo).
  • Un gruppo funziona se si impegna a fare qualcosa di pratico.

Può sembrarvi paradossale: i primi due elementi indicati sono molto filosofici!. Eppure, stabiliti i due principi basilari: la vision (dove vogliamo arrivare) e il pieno rispetto per gli altri (c’è qualcosa che apprezzo in ciascuno di voi) bisogna agire concretamente, come i bambini che decidono quale gioco fare, stabiliscono le squadre e poi si mettono a giocare. Se invece che giocare ridiscutessero tutte le regole, o si raccontassero tutte le partite a cui hanno giocato finirebbero inevitabilmente per litigare!

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La comunicazione non verbale e paraverbale sono in diretto collegamento con il nostro inconscio. Così, conoscere almeno i primi rudimenti di comunicazione non verbale aiuta a conoscere meglio gli altri, interpretare il loro pensiero, comprendere i loro bisogni. Aggiungo, per chi ha già qualche conoscenza di programmazione neurolinguistica, che la postura, i movimenti, il tono di voce, contraddistinguono le tre tipologie: visivo, uditivo e cinestesico. Ciò che, invece, probabilmente tutti sappiamo, ma non ci soffermiamo mai a riflettere in merito, sono i collegamenti tra stato d’animo ed elementi di comunicazione non verbale, e come questi possano davvero aiutarci a vivere meglio. È importante ricordare che esiste un collegamento reciproco tra stato d’animo e non verbale . Mi spiego meglio. Qualunque sia la nostra postura abituale, quando siamo tristi o preoccupati la nostra prima, spesso inconscia, reazione è quella di abbassare le spalle, incassare la testa, abbassare i bordi delle labbra (una sorta di sorriso al contrario). Quando siamo allegri la nostra postura è esattamente l’opposto. E allora? Testa alta, sorriso stampato, spalle bene in fuori: credetemi, non risolve i problemi, ma cambia subito l’umore, e lo spirito con cui affrontare quello che non va. Analogamente: se siamo in uno stato d’animo d’ansia il respiro si fa più corto e affrettato, il tono di voce più acuto e le parole escono molto più in fretta. Uno sforzo volontario per respirare a pieni polmoni, modulare il tono di voce e parlare più lentamente … e l’ansia si attenua. Provare per credere!
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