Un recentissimo sondaggio condotto negli Stati Uniti evidenzia che il 60% dei medici intervistati ha sofferto di burnout, dato posto a confronto con il 40% registrato nel 2018.
E c’è anche un’ampia indagine sull'associazione tra burnout ed errori medici pubblicata sul British Medical Journal:
“i medici psicologicamente esauriti dai turni di lavoro, dal carico di incombenze e dalla pressione dell'emergenza, hanno il doppio delle probabilità di essere coinvolti in errori che compromettono la salute dei pazienti e sono quattro volte più insoddisfatti del proprio lavoro in confronto ai colleghi che non hanno sofferto di burnout”.
A completare il, deprimente, quadro della situazione, si ricorda che le indagini condotte hanno evidenziato come sintomi più comuni associati al burnout sono rabbia, pianto improvviso, ansia, frustrazione e mancanza di motivazione.
Da tutte queste notizie, peraltro attendibili, deriva una considerazione.
Il paziente non è, normalmente, in grado di valutare l’errore medico, che generalmente viene scoperto a posteriori.
Il problema è grave, e auspico soluzioni, ma ciò che trovo angosciante e pericoloso, forse perché sperimentato anche di persone, è l’idea di un paziente che si rivolge ad un medico perché ha problemi e si trova davanti un professionista rabbioso, ansioso, demotivato, frustrato, invece della persona rassicurante, competente, curante, che stava, a pieno diritto, cercando.
Il rapporto medico-paziente, e ciò vale per qualunque figura coinvolta nell’iter di cura, è la prima necessità, il primo passo. Esami, diagnosi e prescrizioni seguono.
La relazione curante - paziente fa parte delle fondamenta, e non c’è edificio che si sostenga senza solide fondamenta.