Preferisci la teoria o la pratica?

Qualcuno preferisce la teoria, qualcuno vuole solo la pratica…

Oggi mischiamo un po’ le cose, parlando di quello che, secondo me, è un limite che l’essere umano si auto-impone un po’ troppo spesso.

Qualunque sia il tema dell’apprendimento, e non solo, qualcuno preferisce la teoria, le regole, e qualcuno la pratica, i tentativi. Forse te lo ricordi dai tempi della scuola, forse lo sperimenti ancora, ciascuno ha preferenze e spesso un vero blocco all’apprendimento che questo non segue la strada preferita.

La programmazione neurolinguistica fornisce una sorta di motivazione: il filtro sensoriale prevalente, di cui ho parlato spesso. Il cinestesico ha bisogno di provare, sperimentare, mettere le mani in pasta, e senza pratica impara con estrema fatica. L’uditivo ha bisogno di teoria, concetti chiari e logici, una sequenza di spiegazioni, e in genere predilige la teoria.

Ma credo ci sia dell’altro.

In realtà la teoria senza la pratica diventa pura filosofia e, per quanto interessante, è limitante nell’apprendimento. Vale anche il contrario, la pratica senza la teoria rischia di essere un costante tentativo non riproducibile, e talvolta un grande pasticcio.

Se ci pensi, non può essere altrimenti: imparare vuol dire conoscere la teoria e mettere in pratica ciò che si conosce.

E allora perché molti si ostinano a voler seguire solo una strada?

Credo che a monte, all’origine, ci sia l’abitudine mentale della nostra cultura di vedere tutto in bianco o nero, giusto o sbagliato, con dicotomie rigide.

Non è così in altre culture: basta pensare allo yin e yang della cultura cinese.

Ci ostiniamo a lasciare indietro una parte di noi. Non dico di rinunciare a ciò che preferiamo, ma di completare il puzzle.

Ricordo, ad esempio, un’insegnante di matematica e fisica che nel raccontare formule, teoremi ed equazioni diventava quasi poetica, guardando con disprezzo chi chiedeva a cosa servivano, mentre nello spiegare la parte di fisica sperimentale aveva lo sguardo annoiato e un po’ perso. Ovvio che, con questa situazione, fosse amata e seguita da chi amava le stesse cose e destata da chi pensava diversamente.

Imparare significa rimanere giovani, contrastare l’invecchiamento cerebrale: è noto a tutti. Ma imparare davvero vuol dire uscire da dicotomie e schemi rigidi e fare nostre sia la teoria che la pratica, e ampliare noi stessi.


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La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …
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