Molti anni fa, davvero molti, anch’io ho frequentato la scuola dell’obbligo: una scuola profondamente diversa da quella di oggi, forse.
Ai miei tempi era normale che la maestra schiaffeggiasse le alunne: la mia aveva scelto lo scappellotto alla nuca, lo stesso modello che oggi usa Leroy Jethro Gibbs di N.C.I.S., solo che le sue erano sberle potenti, improvvise. Le ricordo molto bene e concordo sulla posizione di oggi: sarebbero da denuncia. Noi, invece, se lo raccontavamo a casa prendevamo il resto.
Arrivata alle scuole medie sono finite le sberle, ma sono cominciati gli urli.
L’insegnante di italiano, la più presente in classe, era il top dell’attività.
La sua performance migliore era l’urlata atomica: cominciava a berciare a tutto volume, accompagnando l’urlo con il lancio dei diari e le offese generalizzate. La frase preferita era:
Siete degli Zulù! Pronunciata ad un volume così elevato che sicuramente la popolazione Zulu, in Sud Africa, riceva il messaggio correttamente.
La faccenda andò avanti per anni, senza sortire alcun effetto educativo nella classe e senza provocare alcun timore reverenziale in noi studenti.
Arrivammo così in terza media. Nel frattempo la mia famiglia era cambiata: mio padre si era risposato, e aveva sposato una specialista dell’urlo e della sfuriata improvvisa che si aggirava intorno ai 70 decibel, appena al di sotto dei valori che causano danni permanenti ai timpani.
Fu così che l’urlo dell’insegnante superò, per me, il limite di tollerabilità. E un giorno, all’ennesima sfuriata, esplosi anch’io, dichiarando che non solo urlare era maleducato, ma lanciando i diari ci forniva un pessimo esempio e, per di più, accusarci di essere Zulù come parametro negativo era offensivo verso gli Zulù e indice di razzismo da parte sua.
Finì che intervennero altri insegnanti e mi portarono fuori dalla classe. Non subii punizioni, un po’ perché mia madre era stata insegnante in quella scuola e la sua morte prematura aveva lasciato rimpianti e ricordi e un po’, credo, perché gli altri docenti dovettero riconoscere che, in fondo, non avevo tutti i torti.
A distanza di 45 anni ricordo l’episodio con estrema chiarezza. E uno dei motivi principali per cui lo ricordo è che, nella mia vita, il numero di volte che ho urlato a pieni polmoni si contano sulle dita di una mano, e non mi servono neanche tutte.
Vorrei quindi che questo mio ricordo fosse tenuto bene a mente da tutti gli insegnanti che hanno tutt’ora l’abitudine all’urlo: non serve, è diseducativo e controproducente.
E ci sono metodi molto più efficaci, ma di questo parleremo la prossima volta.