Entrambe i miei genitori erano di famiglia contadina.
La famiglia di mio padre era molto povera, vivevano in montagna, fino a quando mia nonna decise di scendere in città e aprire un ristorante, con l’obiettivo di far studiare almeno i due figli maschi più giovani. Mio padre si laureò grazie ad una borsa di studio.
La famiglia di mia madre era più benestante, ma sempre contadina. La mia bisnonna materna sapeva leggere e scrivere, cosa strana per quei tempi. Riuscì a mandare all’università il figlio più giovane (l’undicesimo!). Era una vera zdora romagnola, qualcosa di intermedio tra un generale e una matriarca. Convinse, e costrinse, i nipoti a studiare. Mia mamma avrebbe, oggi, 100 anni compiuti. Lei, le sue sorelle e i suoi cugini sono stati un’intera generazione di laureati e, per chi non voleva studiare, era consentito limitarsi al diploma alle superiori.
La scuola era il più grande ascensore sociale, fonte di benessere e di prestigio.
Quando sono andata io all’università, 45 anni fa, il concetto era ancora valido: la prova era in quei treni del lunedì e del venerdì strapieni di studenti romagnoli, molti figli di albergatori della riviera, che andavo a studiare a Bologna.
Gli insegnati erano orgogliosi e rispettati. Mio padre, preside, negli anni ’50 veniva interpellato in casi di crisi familiari che coinvolgevano i suoi studenti. Da quanto mi hanno raccontato ne ha risolte parecchie.
Poco a poco…
L’insegnamento è diventato un mestiere di serie B, ed è passato il concetto che andava bene per le donne, come secondo lavoro della famiglia, e secondo stipendio, in base al pregiudizio che un insegnate aveva tempo libero da dedicare alla famiglia.
C’era un controsenso: chiunque, come me, sia cresciuto con insegnanti in casa sa che… un insegnante è per sempre, ed è quasi impossibile, con loro, parlare di qualcosa di diverso dalla scuola.
Il problema, però, c’era, c’è e si è aggravato.
Pochi genitori hanno stima degli insegnanti, e gli stessi insegnanti sono, mediamente, più lamentosi che orgogliosi del loro lavoro e consapevoli dell’importanza del loro ruolo.
La scuola non è più un ascensore sociale, né economicamente, né socialmente.
Ci si sente liberi di insultare l’insegnate, sia da parte dei genitori che degli studenti.
In certi casi può essere persino comprensibile: un insegnante che sminuisce e distrugge l’autostima è devastante. Io maledico ancora certi insegnanti.
Ma un professore che educa davvero è un dono prezioso. Io benedico ancora certi insegnanti.
E ora?
Non sarà l’auspicabile aumento degli stipendi degli insegnanti a ricostruire il patto di fiducia.
Personalmente trovo devastante il concetto che la scuola debba insegnare il lavoro.
La scuola educa, può insegnare la vita, il pensiero. E in ogni caso la velocità di sviluppo tecnologico rende rapidamente obsoleto qualunque strumento rigorosamente tecnico appreso a scuola, ma la scuola può insegnare a gestire la tecnologia, materialmente e psicologicamente.
Qualunque imprenditore, di qualunque genere, offra contratti per 500-600 euro mensili ad un laureato contribuisce a frantumare il patto di fiducia scolastico, ancor più se contemporaneamente è disposto a pagare migliaia di euro ad un influencer di fresca invenzione.
Solo la combinazione sinergica di educazione familiare e scolastica, ciascuno per il proprio ruolo, può generare persone consapevoli, democratiche, veri cittadini partecipe della cosa pubblica, e persone capaci di affrontare senza soccombere le sfide e le difficoltà della vita.
Ma il patto di fiducia è a pezzi. Non sarà facile ricostruirlo. E sembra che solo alcuni singoli siano intenzionati a sostenerlo.