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Il caregiver e la sindrome di wonder woman

Caregiver, lasciati aiutare!

Puoi fare di più, dovrei fare di più… molti caregiver lo pensano, lo dicono e, dal momento che la maggior parte dei caregiver sono donne, dopo un po’ si sviluppa la sindrome di wonder woman.


Quasi improvvisamente ci si ritrova caregiver.

In una società anziana, quasi priva di ammortizzatori sociali, con famiglie sempre meno numerose, l’attività di caregiver per un genitore anziano o per un coniuge è estremamente frequente, e raramente breve.

In poche parole, ci si sfianca, davvero.

L’amore e il senso del dovere si mischiano per farci andare avanti. Quando si parla della combinazione malattie e vecchiaia il percorso è lungo, la fatica tanta.

  • Si vorrebbero vedere miglioramenti, che invece sono rari.
  • Si apprezzano le giornate buone, ci si preoccupa in quelle cattive.

Ed emerge la sindrome di wonder woman: quella strana idea di poter ribaltare la situazione, quella convinzione che facendo di più, agendo meglio, sia possibile quasi risolvere il problema, ridare la salute.


Sappiamo bene di non essere Dio, ma emerge l’idea di potere e dovere aiutare meglio, di più.

Non succede quasi mai, e siamo solo sempre più stanche, demoralizzate e sole.


È una situazione che, in maniera diversa, accomuna quasi tutti gli archetipi del viaggio dell’eroe che stiamo vivendo.

Solo l’orfano e il viandante ne sono esenti, mentre il martire, il guerriero e il mago vengono colpiti in pieno, ciascuno con modalità e comportamenti diversi, ma tutti con sfaccettature della stessa sindrome.

Eppure, in qualche angolino della nostra mente, siamo consapevoli.

La vita, però, segue il suo percorso.

Ed è alla morte dell’assistito che la sindrome di wonder woman può facilmente trasformarsi in senso di colpa e inutili rimpianti. 

Autore: Carla Fiorentini 27 gennaio 2025
Se due individui sono sempre d'accordo su tutto, vi posso assicurare che uno dei due pensa per entrambi. - Sigmund Freud.
Autore: Carla Fiorentini 19 gennaio 2025
La comunicazione non verbale e paraverbale sono in diretto collegamento con il nostro inconscio. Così, conoscere almeno i primi rudimenti di comunicazione non verbale aiuta a conoscere meglio gli altri, interpretare il loro pensiero, comprendere i loro bisogni. Aggiungo, per chi ha già qualche conoscenza di programmazione neurolinguistica, che la postura, i movimenti, il tono di voce, contraddistinguono le tre tipologie: visivo, uditivo e cinestesico. Ciò che, invece, probabilmente tutti sappiamo, ma non ci soffermiamo mai a riflettere in merito, sono i collegamenti tra stato d’animo ed elementi di comunicazione non verbale, e come questi possano davvero aiutarci a vivere meglio. È importante ricordare che esiste un collegamento reciproco tra stato d’animo e non verbale . Mi spiego meglio. Qualunque sia la nostra postura abituale, quando siamo tristi o preoccupati la nostra prima, spesso inconscia, reazione è quella di abbassare le spalle, incassare la testa, abbassare i bordi delle labbra (una sorta di sorriso al contrario). Quando siamo allegri la nostra postura è esattamente l’opposto. E allora? Testa alta, sorriso stampato, spalle bene in fuori: credetemi, non risolve i problemi, ma cambia subito l’umore, e lo spirito con cui affrontare quello che non va. Analogamente: se siamo in uno stato d’animo d’ansia il respiro si fa più corto e affrettato, il tono di voce più acuto e le parole escono molto più in fretta. Uno sforzo volontario per respirare a pieni polmoni, modulare il tono di voce e parlare più lentamente … e l’ansia si attenua. Provare per credere!
Autore: Carla Fiorentini 13 gennaio 2025
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