Cosa significa rendere il paziente partecipe della terapia?
Da più parti si parla di partecipazione del paziente alla terapia, spesso facendo sorgere equivoci e confusioni

È opportuno che il paziente sia partecipe della terapia? Considerando tutto quello che è stato scoperto, dalla neurofisiologia, in merito all'effetto placebo, è decisamente importante che il paziente sia partecipe della terapia.
Però il termine “partecipe” può voler dire tante cose diverse, quindi la vera domanda è in quale modo rendere il paziente partecipe della terapia per ottenere i migliori risultati.
Io credo che un atto terapeutico corrisponda ad un lavoro di gruppo, in cui ciascuno ha responsabilità ed è tenuto a partecipare al meglio. Poi ci sono gli assestamenti specifici di ciascun team.
Apparentemente può essere semplice spiegare il ruolo di due dei componenti del team: medico e paziente. Il medico fa la diagnosi, avvalendosi di tutti i servizi e supporti che ritiene necessari, e il paziente segue la terapia, fidandosi del medico.
Sembra facile, vero?
Eppure abbiamo un inghippo fin dall’inizio. Il paziente deve
voler guarire.
Vi sembra assurdo pensare che qualcuno non voglia guarire? Basta pensare alle malattie psicosomatiche, alle condizioni di vita, alimentazione, stress che tutti noi viviamo, più o meno frequentemente. Dirò di più: il paziente deve essere convinto di guarire per diventare realmente partecipe del processo terapeutico.
Ed è molto difficile spiegare le differenze tra una convinzione profonda, terapeuticamente efficace, ed un desiderio, come spiegare la differenza tra un legittimo, e innocuo, timore che si prova in caso di malattia e le paure che danneggiano il processo di guarigione.
Forse le spiegazioni più chiare stanno in alcuni esempi pratici. È come la differenza che c’è tra recitare una preghiera per abitudine e invocare l’aiuto divino per qualcosa che ci sta veramente a cuore. Oppure c’è la differenza che c’è tra leggere una favola da adulti e la stessa favola ascoltata da bambini: da bambini ci si immedesima al punto da vivere la favola.
Il paziente deve raggiungere la piena convinzione di poter agire positivamente per la sua salute. In questo rientra la piena fiducia nel medico curante.
E se il medico non “collabora” è meglio cambiare medico.
Ciò che, invece, non rientra nella partecipazione del paziente è la scelta della terapia, il mischiare le prescrizioni del medico con ciò che si sente in giro, o che si legge su internet.
Per partecipare all’atto terapeutico il paziente non deve essere “contento” del suo medico, ma fidarsi:
sono stati d’animo completamente diversi. Se ho il colesterolo alto, non posso essere contento di un medico che mi toglie tutte le gioie della tavola, ma posso fidarmi e seguire la dieta prescritta.
Il farmacista, spesso, è considerato solo un partecipante occasionale o marginale del gruppo. Eppure può fare la differenza. Forse è tempo di riflettere!

La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …







