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Un direttore esigente

Dare il feedback ai collaboratori

La Storia
Andrea, da poco nominato direttore nella farmacia dove lavorava, che fa parte di un importante gruppo, vuole gestire al meglio il personale.
Qualche mese dopo aver fissato gli obiettivi, incontra ad uno ad uno i suoi collaboratori per il feedback.
Il primo è Enrico.
Bene, eccoci qui, Enrico. Tu hai l’obiettivo di ridurre del 5% il valore del magazzino che abbiamo qui in farmacia e di ottenere almeno 10 momenti di formazione da parte delle aziende per il personale della farmacia nei primi 4 mesi. Mi fai il punto della situazione?
Sul magazzino andiamo alla grande. Nel primo trimestre abbiamo ridotto del 7%, pur avendo aumentato il fatturato, ma questo lo sai. Invece sono messo male per la formazione. E sai anche questo.
Cosa pensi di fare?
Difficile a dirsi, credo che i due obiettivi siano incompatibili tra loro. Riducendo gli acquisti diretti, le aziende sono meno propense a farci formazione.
Ma forse anche tu sei troppo scostante con gli agenti? Ieri ho visto uno che ti invitava a pranzo e hai rifiutato.
Domande
  • Cosa dite del feedback che Andrea sta dando ad Enrico? È un feedback corretto?
  • Poteva far di meglio?
Risposte
Cosa dite del feedback che Andrea sta dando ad Enrico? È un feedback corretto?
Per ora Andrea non ha davvero dato un feedback ad Enrico. Ha solo fatto alcune domande e considerazioni.
In ogni caso sta prendendo la strada sbagliata: un buon feedback analizza e valuta quello che è stato fatto in funzione dell'obiettivo che si voleva raggiungere, ma non viene mai valutata la persona. Le parole di Andrea, invece, sono pericolosamente vicine ad una critica personale.
Poteva far di meglio?
Assolutamente sì. 
In primo luogo mancano informazioni, che Andrea poteva raccogliere, più complete sul cosa è stato fatto e come è stato fatto. Non è sufficiente, per un buon feedback, conoscere i risultati: è necessari sapere come sono stati ottenuti. 
Il secondo passo, necessario, è convalidare ciò che è stato fatto di positivo. Rafforzare il positivo è un passo importante per far sì che i comportamenti positivi vengano strettamente correlati alle situazioni e ai risultati e si ripetano anche in futuro.
Il terzo punto è poi quello dell’analisi dei risultati e dei comportamenti da migliorare, che vanno disgiunti dalla persona.

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La comunicazione non verbale e paraverbale sono in diretto collegamento con il nostro inconscio. Così, conoscere almeno i primi rudimenti di comunicazione non verbale aiuta a conoscere meglio gli altri, interpretare il loro pensiero, comprendere i loro bisogni. Aggiungo, per chi ha già qualche conoscenza di programmazione neurolinguistica, che la postura, i movimenti, il tono di voce, contraddistinguono le tre tipologie: visivo, uditivo e cinestesico. Ciò che, invece, probabilmente tutti sappiamo, ma non ci soffermiamo mai a riflettere in merito, sono i collegamenti tra stato d’animo ed elementi di comunicazione non verbale, e come questi possano davvero aiutarci a vivere meglio. È importante ricordare che esiste un collegamento reciproco tra stato d’animo e non verbale . Mi spiego meglio. Qualunque sia la nostra postura abituale, quando siamo tristi o preoccupati la nostra prima, spesso inconscia, reazione è quella di abbassare le spalle, incassare la testa, abbassare i bordi delle labbra (una sorta di sorriso al contrario). Quando siamo allegri la nostra postura è esattamente l’opposto. E allora? Testa alta, sorriso stampato, spalle bene in fuori: credetemi, non risolve i problemi, ma cambia subito l’umore, e lo spirito con cui affrontare quello che non va. Analogamente: se siamo in uno stato d’animo d’ansia il respiro si fa più corto e affrettato, il tono di voce più acuto e le parole escono molto più in fretta. Uno sforzo volontario per respirare a pieni polmoni, modulare il tono di voce e parlare più lentamente … e l’ansia si attenua. Provare per credere!
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