Soft skills: la gestione tempo

Il tempo manca solo a chi non ne sa approfittare. Gaspar Melchor de Jovellanos

L’inizio di questo articolo è decisamente brutale, perdonatemi, ma credo che la frase più triste e più frequente che sento pronunciare sia “vorrei, ma non ho tempo”.


Abbiamo tutti sperimentato momenti lunghissimi che sembrano ore, e ore trascorse tanto velocemente da sembrare minuti, quindi, almeno a livello teorico, sappiamo bene che il tempo non ha valore assoluto. Eppure sono ben pochi coloro che si impegnano ad usare in maniera proficua il proprio tempo.

Una buona gestione del tempo non corrisponde, secondo me, ad una corsa incessante in cui ogni istante è impegnato in maniera efficientissima.

Tutt’altro! Io credo che una gestione efficace e consapevole del tempo comprenda momenti di assoluto relax, ore in cui fermarsi a pensare.

Chi mi conosce sa che sono un’accanita sostenitrice di ciò che, molto poco elegantemente, chiamo “cazzeggio libero”: è un tempo che può rivelarsi davvero prezioso per risolvere problemi, trovare nuove idee, ampliare il benessere interiore. Contesto anche le giornate iper-organizzate dei bambini di oggi: il tempo di gioco libero dei bambini è fondamentale per uno sviluppo armonico della loro personalità. Parere mio, ovviamente, e non verità assoluta.

So bene che è difficile ricavarsi tempo libero, soprattutto per una donna che lavora. Tuttavia il tempo è prezioso, lo sappiamo tutti, e questa consapevolezza può essere una delle migliori fonti di stress.

Ciò che serve, per una buona gestione del tempo, è prima di tutto la consapevolezza di come lo si usa.

Una mia cara amica è sempre stressatissima, in continua corsa contro il tempo. Siamo amiche, abbiamo lavorato insieme, per qualche anno ha avuto l’ufficio vicino a casa mia. Così ho avuto modo di toccare con mano come utilizza il suo tempo. E ho cominciato a rifiutare i suoi inviti a prendere un caffè o un aperitivo insieme. Perché la sua gestione del tempo cominciava ad influire pesantemente sulla mia. Un caso pratico:

  • ricevo una telefonata alle 10.00 del mattino con invito per un aperitivo alle 18.30. Ma la telefonata dura mezz’ora perché vuole raccontarmi quanto era stata faticosa la riunione del giorno prima.
  • l’aperitivo, poi, inizia in realtà alle 19.00 perché ha ricevuto alcune telefonate in ufficio.
  • e quello stesso aperitivo dura oltre un’ora, di cui parte impegnata a raccontarmi nuovamente la stressante riunione del giorno prima, e parte preoccupata perché deve correre a casa a preparare la cena.

La ciliegina sulla torta è però il fatto che l’amica citata non è per nulla consapevole di quanto tempo passa al telefono a chiacchierare, così ritiene di non avere mai tempo per sentire gli amici. E concludendo ogni cosa in regolare ritardo si sente sempre l’acqua alla gola.


Una delle esperienze più faticose, e contemporaneamente illuminante, è stata un progetto vissuto come dirigente in azienda.

  • L’obiettivo ufficiale del progetto era migliorare l’efficienza dei diversi reparti: quello reale era verificare se si poteva ridurre il personale. Io ero coordinatore per la mia direzione.
  • Fu chiamata un’importante società di consulenza, famosissima a livello internazionale, che ci fornì una serie di moduli in cui registrare per alcuni giorni come impiegavamo le ore di lavoro. Fu sconvolgente.
  • Ciò che mi lasciò sorpresa non furono le ore trascorse in chiacchiere, in una certa misura facevano parte del lavoro, e considerando l’inutilità di molte riunioni a cui partecipavano i vertici aziendali non trovavo molta differenza tra il tempo “perso” per quattro chiacchiere al caffè tra due impiegati e il tempo perso da mega dirigenti aziendali in riunioni palesemente inutili.
  • La vera cosa inaspettata fu che molte persone non avevano la più pallida idea di come trascorrevano le loro giornate di ufficio e solo quando furono costrette a contare materialmente il tempo si resero conto che avrebbero potuto, con poco sforzo, consegnare i lavori in tempo utile, godersi le pause, evitare straordinari non pagati, …

Consapevolezza e organizzazione sono le chiavi per una buona gestione del tempo. E questo porta ineludibilmente ad una migliore qualità di vita. Si può fare!

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La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …
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Harry vince la battaglia finale, ma ha vinto molto prima
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Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.
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Spesso a diagnosi di malattia grave fa scattare l’inizio di percorso di gestione dell’esperienza, di un viaggio dell’eroe. Portare a termina il nostro viaggio, iniziato con la diagnosi, fa vincere un premio molto speciale.
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