Un esercizio molto semplice: recupera e scrivi cosa ti rendeva felice da bambino, da piccolo, prima dei sei anni, quando ancora i condizionamenti della famiglia e del mondo erano minimi. Questo è un esempio, la mia favola delle felicità.
Quando sono nata mi hanno sculacciato, e ho pianto. Io non ne avevo motivo, ma era quello che volevano le persone attorno a me.
Non mi ricordo cosa è successo dopo, ma ho i racconti a sostenermi. Dopo pochi giorni mi hanno versato un po’ di roba in testa. Pare che diversi bambini piangessero per questo. Io, da quello che mi hanno detto, ho tentato di leccare il sale che mi avevano spruzzato in faccia.
Poi sono arrivata a casa. I miei genitori sapevano sempre quando si svegliava mia sorella: strillava o piangeva. Nessuno, invece, sapeva quando mi svegliavo io. A un certo punto venivano a controllarmi e mi trovavano sveglia, spesso sorridente, sempre intenta a guardare il soffitto, oppure a contarmi le dita (mani e piedi: un bell’impegno).
Sarei così anche ora se mio marito non cominciasse a parlare appena sveglio e se i miei gatti non fossero in agguato per identificare il mio risveglio e chiedere la pappa!
La mia non è stata un’infanzia serena, ma è stata un’infanzia felice.
Mia madre è morta prima che io compissi i tre anni, e soffrivo di sindrome abbandonica e fobia sociale, eppure ero felice.
Uno dei miei primi ricordi di infinità felicità risale a quando avevo circa 4 anni: ero nel lettone, a causa di una delle tante bronchiti, con in mano un libro sugli squali (ce l’ho ancora) e stavo… leggendo e scrivendo. Inutile dirlo: non sapevo né leggere, né scrivere, ma ritenevo di farlo, ed ero felice.
Non molto dopo, intorno ai sei anni, un altro infinito motivo di felicità: cucinare. Grazie alla mia dada ero in grado di elaborare, da sola, un pasto completo: scaloppine al limone, patate fritte, biscotti e meringhe.
E poi c’era Michele. Coetaneo, amico e complice. Eravamo un team coeso o, a detta dei genitori, una vera associazione a delinquere. Facevamo sperimentazioni, come verificare il sangue freddo delle lucertole mettendole nel frigorifero di sua madre e controllando ogni tanto come stavano. Per Natale facevamo la lista ci ciò che secondo noi ci serviva e la comunicavamo a Babbo Natale, suddividendo equamente le richieste, secondo noi. Ma mio padre fu perplesso l’anno in cui chiesi due confezioni di soldatini, e altrettanto i genitori di Michele alla sua richiesta di una carrozzina per le bambole!
A poco a poco la felicità è cambiata. Prima l’ho subordinata all’approvazione degli altri, poi ai traguardi raggiunti, rendendola così schiava di eventi e situazioni che dipendevano da me solo in parte.
Ci sono voluti quasi trent’anni affinché riuscissi a recuperare la felicità, quella vera, solo mia.
Ho ritrovato il mio io bambina, ritrovando la felicità totale che avevo prima della morte di mia madre, e scoprendo che ciò che mi rendeva felice anche nei primi, difficili anni, è ciò che mi rende felice, è ciò che so fare: leggere, scrivere, cucinare, essere curiosa e poter partecipare a collaborazione vere e profonde.
In fondo è lì che possiamo trovare i nostri veri doni: nella felicità che avevamo da bambini.