Il ruolo del team working

Nessun uomo è un'isola, intero per se stesso. Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte della terra. John Donne

Trovo estremamente indicativo della nostra società e del nostro stile di vita, oltre che piuttosto ironico, il fatto che ci affanniamo tanto a parlate di team working e di insegnare a lavorare in gruppo.

Indicativo e ironico: avete presente quello che ci hanno insegnato sull’Homo sapiens e sulla preistoria? Saper collaborare tra esseri umani, lavorare in gruppo, era semplicemente una questione di sopravvivenza.

Se quello che ci hanno raccontato era vero, e non ho motivi per dubitarne, significa che consideriamo l’estremo individualismo e le difficoltà del team working come un’aberrazione evolutiva della nostra specie, o come una brutta infrastruttura appresa durante i secoli. Boh, anacoreti a parte, la storia racconta che anche durante il Medio Evo le comunità umane erano strutturate e basate sulla cooperazione. L’individualismo così sfrenato sembra nato, sostanzialmente, dopo la rivoluzione industriale … più o meno insieme al concetto di stress. Ma non sono qui per una lezione di storia, né sono la persona giusta per farla.

Ciò su cui desidero far riflettere è che il team working potrebbe, e dovrebbe, essere un’attività del tutto spontanea e naturale.

Girando per le scuole, e parlando con gli insegnanti, vedo bellissimi progetti di collaborazione tra insegnanti di diverse materie, scuole, … Vedo però che molti di questi bellissimi progetti nascono più dall’amicizia e simpatia tra gli insegnanti che dalla reale necessità o funzionalità del progetto.

E sento anche insegnanti convinti di poter usare la loro professione per essere “padroni del mondo” nelle ore in cui sono in classe e rifiutare qualunque dialogo, e possibilmente qualunque contatto, con i colleghi.


Collaborare richiede sincerità e onestà intellettuale, sospensione di giudizio e consapevolezza che le sinergie sono una realtà. Richiede anche la conoscenza di se stessi, la consapevolezza, la volontà …


E, soprattutto, per poter lavorare in team è indispensabile la visione tesa all’obiettivo, che non significa necessariamente la vittoria, invece che limitarsi a guardarsi in faccia, o allo specchio per dirsi “bravo”, o a esaminare l’altro per poterlo criticare.

C’è poi un’altra riflessione, importante, che collega il lavoro di squadra ad altre relazioni umane.

  • Chi sa stare da solo riesce a costruire una relazione sentimentale stabile e soddisfacente.
  • Chi sa lavorare bene da solo riesce a comprendere gli aspetti positivi del lavoro di squadra.
  • Chi si aspetta, invece, di essere costantemente puntellato e ritiene di non saper stare in piedi senza un compagno, o senza un gruppo con cui lavorare, rasenta spesso comportamenti di egoismo e di egocentrismo che danneggiano qualunque relazione, e qualunque gruppo.

Mi fermo qui, per ora. Avremo modo di aggiungere molto nelle prossime settimane.

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La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …
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Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.
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