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Il caregiver esausto

Racconto dell’esperienza personale, suggerimenti, errori da non ripetere, e qualche consiglio.

Era il 30 settembre. Mio marito ha diversi problemi di salute, in parte legati all’età, e da qualche mese è particolarmente fragile, con attacchi di ansia.

Quella mattina avevo un webinar, quindi è andato a far la spesa al mercato in compagnia di un’amica: sono mesi che non esce da solo. Rientra prima del previsto, stanchissimo, e decide di sdraiarsi. Non a letto, ma sul divano così può guardare la televisione. Il giorno dopo ha qualche linea di febbre, passata con una banale aspirina, ma dichiara di essere stanchissimo, e rifiuta di alzarsi.


Il lunedì non ha febbre, ma lamenta dolori, stanchezza e rifiuta il cibo. Temo il covid, o l’influenza, che in una persona di quasi 80 anni con broncopneumopatia cronica possono essere problematici, ma il test, acquistato in farmacia, è negativo.

Telefono al reparto di geriatria che lo segue da anni, ma rispondono che l’unica cosa è portarlo al pronto soccorso e poi, forse, lo prendono in carico nel reparto.

 

Martedì 2, non sapendo più cosa fare, scrivo al medico di base. Grande donna, il mio medico di base. Conosce bene me e mio marito e sa che, se esprimo preoccupazione e angoscia, non lo faccio a cuor leggero. Viene a casa, lo visita: polmonite bilaterale. Prescrive antibiotici e consiglia l’ospedalizzazione, ma lui rifiuta. Così proviamo a curarlo a casa. E comincia l’incubo.


Non dorme, e non mangia. A nulla servono gli ansiolitici, e a nulla servono tentativi con le buone e con le cattive di fargli accettare un po’ di cibo. Fare l’aerosol è una battaglia, poi tentativi vari di corruzione, poi una guerra. Serve a poco: la dose maggiore di aerosol va sempre a beneficio della stanza invece che dei suoi polmoni.


La terapia non sortisce l’effetto desiderato, e va sempre peggio. La dottoressa, che continua a venire a vederlo, è preoccupata e gli parla di ospedale. Lui sta male, e al momento acconsente. Poi, quando arriva l’ambulanza, rifiuta di salire. Per legge, se un paziente in grado di intendere e di volere firma il rifiuto all’ospedalizzazione, non si può fare nulla.


Si cambia terapia: iniezioni, ogni giorno, e ogni giorno la dottoressa viene a fargliela.

Servono un’RX torace, e gli esami del sangue. Cerchiamo il servizio a domicilio. Rifiuta di sedersi per fare l’RX, che viene fatta un po’ come si può.

Rifiuta di mangiare e dorme pochissimo, e io con lui visto che chiama e si lamenta tutta notte.

A nulla servono preghiere o sgridate: è ostinato e diventa anche aggressivo.

Proviamo a spaventarlo facendo intervenire un prete (lui è di famiglia molto cattolica), non per l’estrema unzione, ma per una chiacchierata. Dopo due ore, promette di seguire ciò che dice la dottoressa, ma appena il prete va via, ricomincia a fare solo quello che vuole.


Passano i giorni. Non mangia e non dorme. Chiamo suo cognato, medico, e spiego la situazione. Dice: “ci penso io”.

Dopo un paio d’ore, il cognato mi ingiunge di chiamare l’ambulanza perché è sicuro che adesso andrà.

E infatti arriva l’ambulanza, e si ripete la scena: rifiuta di salire.

Il cognato lancia un vaffa e un “me ne lavo le mani”.


Poi la polmonite guarisce.

Eppure lui rimane lì, ostinatamente, su quel divano, senza alcuna volontà di alzarsi, e neanche di mettersi seduto. Prego, urlo, grido, piango, sperimento emozioni che mi erano sconosciute. Mi devo arrendere alla sua ostinazione, e al fatto che nessuno può obbligare o convincere un altro a fare cambiamenti che non vuole fare, neanche se è per farlo star bene.

Rimango, con i miei certificati da coach, in un abisso di carenza di sonno, di stanchezza, di cibo buttato perché dopo pochi bocconi lo rifiuta, di bucati da fare, di traverse da cambiare perché lui il pannolone se lo toglie, ritenendolo poco dignitoso. Passano i giorni e le settimane, e sono ancora qui, esausta.

Mi ritaglio spazi di sopravvivenza in un cappuccino o un caffè al bar, in un piatto di spaghetti per evitare di mangiare schifezze frettolosamente, in qualche meditazione che però, ora, fatico a seguire. Riguardo Harry Potter, che mi mette di buon umore, per l’ennesima volta, qualche video di cuccioli, e mi godo le fusa che Atena non mi lesina mai.

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La comunicazione non verbale e paraverbale sono in diretto collegamento con il nostro inconscio. Così, conoscere almeno i primi rudimenti di comunicazione non verbale aiuta a conoscere meglio gli altri, interpretare il loro pensiero, comprendere i loro bisogni. Aggiungo, per chi ha già qualche conoscenza di programmazione neurolinguistica, che la postura, i movimenti, il tono di voce, contraddistinguono le tre tipologie: visivo, uditivo e cinestesico. Ciò che, invece, probabilmente tutti sappiamo, ma non ci soffermiamo mai a riflettere in merito, sono i collegamenti tra stato d’animo ed elementi di comunicazione non verbale, e come questi possano davvero aiutarci a vivere meglio. È importante ricordare che esiste un collegamento reciproco tra stato d’animo e non verbale . Mi spiego meglio. Qualunque sia la nostra postura abituale, quando siamo tristi o preoccupati la nostra prima, spesso inconscia, reazione è quella di abbassare le spalle, incassare la testa, abbassare i bordi delle labbra (una sorta di sorriso al contrario). Quando siamo allegri la nostra postura è esattamente l’opposto. E allora? Testa alta, sorriso stampato, spalle bene in fuori: credetemi, non risolve i problemi, ma cambia subito l’umore, e lo spirito con cui affrontare quello che non va. Analogamente: se siamo in uno stato d’animo d’ansia il respiro si fa più corto e affrettato, il tono di voce più acuto e le parole escono molto più in fretta. Uno sforzo volontario per respirare a pieni polmoni, modulare il tono di voce e parlare più lentamente … e l’ansia si attenua. Provare per credere!
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