Da qualche tempo si parla molto di Ikigai, un termine giapponese che significa la "propria ragione d'essere e di esistere".
La promessa sottostante alla ricerca del proprio ikigai è quella di trovare ciò che viene definito il proprio compito nella vita, ma anche la professione ideale. Infatti, tra le indicazioni che vengono fornite per la ricerca si dice che l’Ikigai è il punto in comune tra ciò che ami, ciò che sai fare bene, ciò che serve al mondo e ciò per cui potresti farti pagare, detto in termini pratici e funzionali un lavoro da amare.
In realtà mi sembra che l’Ikigai sia molto più di questo, e che non sia necessariamente uno e uno solo per tutta la vita, ma si aprirebbe un discorso molto ampio.
Accontentiamoci, quindi, e ragioniamo: fare il farmacista può essere, almeno in parte, una componente dell’Ikigai?
Considerando la fuga dei farmacisti dalla professione sembrerebbe proprio di no, ma se ampliamo l’orizzonte possiamo avere qualche sorpresa.
La professione di farmacista è una diretta estensione dello speziale medievale, con una fortissima componente di cura, ma anche di miglioramento della qualità di vita.
In termini di vocazione possiamo abbinare il farmacista all’erborista, al nutrizionista, a tutta una serie di professioni correlate a cura e qualità di vita.
Ciò che induce alla fuga dal ruolo di farmacista sembra essere molto più connesso alle condizioni pratiche della professione che non ad una impossibilità di realizzazione personale attraverso la professione.
A mio avviso si tratta quindi di un problema manageriale, non di un deficit di vocazione.