E vai con l’Engagement

Patient Engagement, Customer Engagement, Engagement per tutti. 

Engagement significa, da dizionario, fidanzamento ufficiale, promessa di matrimonio o, quanto meno, queste sono le traduzioni che compaiono per prime nell’elenco. Si procede con impegno, coinvolgimento, ingaggio, contratto: in pratica un legame molto stretto e coinvolgente tra due parti.

Leggo l’intervista ad un importante manager che specifica come, a fronte del cambiamento epocale dovuto ai social, sia necessario passare dal customer relationship management (gestione della relazione con il cliente) al customer engagement: pieno coinvolgimento del cliente. Ogni azienda dovrà quindi raccogliere sempre più informazioni sul cliente, conoscere in profondità la persona oltre che le abitudini e i criteri di acquisto, e fare in modo che il cliente si senta “nella stanza dei bottoni” aziendali.

Più o meno gli stessi concetti valgono per il patient engagement.

Questo è il futuro: mi adeguo, ne vedo degli aspetti positivi, soprattutto in ambito salute, ma permettetemi anche di fare il bastian contrario e di sollevare qualche obiezione.

  • La prima obiezione è che il pensiero che là fuori ci siano aziende che si fanno i fatti miei, che mi studiano sui social per schedarmi e trovare leve personalizzate per vendermi qualcosa mi fa sentire un po’ in balìa del grande fratello. C’è una differenza tra persona e consumatore, c’è una barriera tra le due ed è la frontiera tra il mio privato e il pubblico. Certo, si può sostenere che se scrivo su FB accetto dei varchi in quella frontiera, ma sono io che decido dove porre la dogana. Mai, come in questa epoca dove la privacy è garantita per legge, la stessa privacy viene costantemente insidiata e lesa.
  • La seconda obiezione è, secondo me, ancora più importante. E complessa.

Il cliente e il paziente non hanno più solo il diritto di essere informati: ora entrano nella stanza dei bottoni. O, almeno, si fa in modo che abbiano la convinzione di entrare nella stanza dei bottoni.

Tecnicamente questo implica che il paziente o il cliente sappiano tanto quanto il medico o l’azienda che produce e commercializza.

Facile! Afferma qualcuno. È dovere del medico, o dell’azienda, fornire informazioni e poi in rete si trovano infinite informazioni su qualunque argomento.

Sì, lo so, è ovvio. Ma, secondo me, esiste una profonda differenza tra informazioni e competenze, e il processo per trasformare un’informazione in competenza, o una nozione in cultura, è lungo e impegnativo. I miei studi e il mio lavoro mi hanno fatto acquisire competenze su molti farmaci, ma sulle patologie ho informazioni: le competenze sono del mio medico (o almeno spero!)


La confusione tra informazioni e competenze ha anche pesanti effetti collaterali.

  • In Italia ci sono sempre stati milioni di allenatori della nazionale di calcio. Adesso però, e basta guardare i social, abbiamo “aggiustato il tiro”: quelli che un tempo erano i pensionati che discutevano il lavoro degli ingegneri nei cantieri sono diventati milioni di italiani che lanciano critiche e pareri (e insulti) su tutto, preferibilmente su cose che richiedono competenze che non hanno.

Già questo sarebbe, secondo il mio modo di vedere, un problema, ma la conseguenza di tutto questo è grave.

  • Il professionista che si sente contestato e insultato nelle tematiche in cui lui avrebbe le competenze può facilmente trovare nell’engagement una modalità per abdicare le proprie responsabilità. 

So che, come azienda alimentare, ho l’obbligo di tutelare la qualità di ciò che ti vendo, ma ti ho coinvolto e informato, tu hai comprato, e io non sono più responsabile di ciò che ti vendo.

So che, come medico, ci sono scelte davvero difficili. Ora ti informo, ti invito ad informarti, e lascio la scelta a te paziente.

L’engagement può facilmente diventare una via di fuga dalle responsabilità. Certo, questo non vale per tutti, ma apre la strada. E chi non è, o non si sente profondamente, responsabile del proprio lavoro può anche farlo in maniera approssimativa, o con un pizzico di cialtroneria. E Dio sa che non abbiamo bisogno di sdoganare la cialtroneria. 

Autore: Carla Fiorentini 30 novembre 2025
La programmazione neurolinguistica identifica 4 posizioni percettive: parliamo della seconda
30 novembre 2025
Sanità che cambia
Autore: Carla Fiorentini 29 novembre 2025
La diagnosi di una malattia grave dà inizio ad un vero viaggio dell’eroe.
Autore: Carla Fiorentini 23 novembre 2025
La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …
Autore: Carla Fiorentini 23 novembre 2025
Harry vince la battaglia finale, ma ha vinto molto prima
Autore: Carla Fiorentini 16 novembre 2025
Che succede 10 anni dopo la diagnosi?
Autore: Carla Fiorentini 8 novembre 2025
Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.
Autore: Carla Fiorentini 8 novembre 2025
Spesso a diagnosi di malattia grave fa scattare l’inizio di percorso di gestione dell’esperienza, di un viaggio dell’eroe. Portare a termina il nostro viaggio, iniziato con la diagnosi, fa vincere un premio molto speciale.
Autore: Carla Fiorentini 2 novembre 2025
La programmazione neurolinguistica identifica 4 posizioni percettive
Autore: Carla Fiorentini 2 novembre 2025
Ricordi e riflessioni
Show More