Il viaggio, la malattia e i tre cervelli 2° parte
Altri spunti di riflessione, un po’ disordinati, su un argomento che mi sta molto a cuore.

In un articolo precedente, Il viaggio, la malattia e i tre cervelli, ci eravamo lasciati con una domanda: Come possiamo utilizzare i tre cervelli per aiutarci nel passaggio da un archetipo all’altro e, in definitiva, a compiere i nostro viaggio?
Oggi provo a dare una risposta, o almeno alcuni frammenti di risposta. Il viaggio dell’eroe, in particolare quando riguarda una situazione complessa come una malattia grave, richiede numerosi passaggi e molte elaborazioni: per affrontare l’argomento in maniera organica servirebbe un libro più che una serie di articoli. Se, tuttavia, siete appassionati come me dell’argomento, anche solo i pochi spunti di riflessione che trovate qui possono essere un aiuto.
Come in altre occasioni mi affido ad una forma semplificata del viaggio dell’eroe che comprende gli archetipi dell’innocente, dell’orfano, del martire, del viandante, del guerriero e del mago:
su di loro potete leggere alcuni articoli in questa pagina e, prossimamente, vedremo anche più in dettaglio le caratteristiche di questi archetipi in relazione alla malattia. Un passo alla volta … perché, come dice Lao Tse, un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo.
Arriva quindi il drago, la diagnosi, e siamo innocenti. L’innocente è sereno, felice, fiducioso, sicuro che ad un certo punto tutto tornerà come prima, a quella che considera normalità. Non affronta la malattia: la nega e la disconosce.
Se non esce dal ruolo, l’innocente non compirà mai il suo viaggio.
Per me è stata illuminante una frase di Albus Silente in Harry Potter e il calice di fuoco. Deve capire: capire è il primo passo per accettare, e solo accettando si può guarire.
È la testa che induce il passaggio da innocente a orfano. Ed è incoraggiando, rinforzando, il cervello della testa che possiamo facilitare la trasformazione.
L’orfano
è solitudine, sofferenza, è colui che è tradito e privo di ogni forma di possibile protezione, è annichilito, si attende solo una solitaria agonia.
Solo il cuore, inteso come compassione per se stesso, può smuoverlo. Per il passaggio da orfano a martire bisogna quindi dare spazio al cuore, aprire al mondo, alla pietà, anche se solo per se stessi.
Il martire forse si sente l’unico a soffrire, ma chiede aiuto e si chiede perché. Certo, può essere lamentoso, talvolta si piange addosso, ma è reattivo.
Ora gli serve la pancia per trovare il coraggio di andare avanti, l’affermazione di sé per recuperare le risorse necessarie al passaggio da martire a viandante.
Il viandante
accetta di uscire da quella che viene chiamata zona di confort, anche se spesso è tutt’altro che confortevole. Inizia la ricerca, interiore o verso il mondo esterno, di soluzioni, armi, risorse. Le cerca e le accumula, non per usarle davvero, ora. È facile rimanere bloccati nell’archetipo del viandante: si ha la sensazione di far davvero molto, tutto il possibile e ancora di più, ma bisogna andare avanti, decidere di affrontare il drago, diventare guerriero.
Ho molti dubbi su quale dei tre cervelli, testa, cuore o pancia, possa indurre il cambiamento da viandante a guerriero. Per quanto il guerriero debba essere coraggioso, se si lascia guidare solo dal coraggio e dall’affermazione di sé, elementi fondamentali per il viandante, non effettua il cambiamento. E difficilmente il cuore, l’amore per il mondo, la compassione, può generare un guerriero. Dunque è la testa, con l’intuizione che serve una strategia per usare tutte le armi raccolte come viandante, che genera il passaggio, è la visione della realtà che induce il cambiamento.
Il guerriero
è forte, pronto a combattere.
È solo quando, e se, il guerriero accetta le proprie debolezze che può progredire e diventare mago, colui che davvero affronta il drago e può trasformarlo. Io credo che serva la pancia per passare da guerriero a mago perché ancora una volta si tratta di coraggio, coraggio per uscire da una situazione tutto sommato confortevole come quella del combattivo guerriero e coraggio e consapevolezza di sé per riconoscere e accettare le proprie debolezze.
Ed eccoci maghi, potenti, capaci di mutare il piombo in oro, di avocare a sé le energie dell’universo intero, persino di trasformare il drago in risorsa.
Ma la storia, il viaggio, non è concluso finché il mago non riesce a tornare innocente, solo che ora sarà un innocente consapevole. Come fare? Cosa serve al mago per andare oltre la sua piena potenza?
Al mago manca la modestia, la compassione: la potenza l’ha reso orgoglioso e dalla potenza all’idea di onnipotenza il passo è breve.
Gli serve il cuore per andare oltre, tornare innocente, e cercare l’armonia tra i tre cervelli.

La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …

Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.






