I nemici della comunicazione: l'ansia
L'ansia è un nemico subdolo e insidioso, anche della comunicazione
Il vocabolario definisce l’ansia come “agitazione dell'anima motivata da incertezza". Un’altra definizione, sempre da vocabolario, indica uno stretto collegamento tra ansia e paura.
Ma ci sono notevoli differenze tra l’ansia e la paura.
- La paura paralizza, almeno come primo impatto, preparando poi ad una reazione di difesa se è necessario.
- L’ansia non blocca, non ci paralizza. Anzi! Quando siamo in preda all’ansia spesso siamo incapaci di star fermi.
Io vedo la paura come un buco nero. Vedo invece l’ansia come una fittissima nebbia bianca, come ho visto qualche volta da bambina sulla strada tra Forlì e Ravenna. Tutto intorno a noi è immobile, ma noi non riusciamo a partecipare dell’immobilità, abbiamo assoluto bisogno di muoverci, di andare, anche se sappiamo benissimo che il nostro andare probabilmente non ci condurrà da nessuna parte, o potremmo con buona probabilità sbagliare strada.
L’ansia ci rende sordi:
percepiamo dei suoni di cui non comprendiamo appieno il significato, e rispondiamo a casaccio, in base a quello che pensiamo di aver, forse, sentito.
Inoltre l’ansia crea anche una coltre lattescente interiore, impedendoci di aver accesso alle risorse di cui disponiamo. A differenza della paura, sotto ansia siamo in grado di parlare. A differenza della rabbia l’ansia non ci fa accedere agli istinti primordiali.
Quando siamo in ansia parliamo, ma perdiamo buona parte delle nostre capacità: siamo totalmente sordi a noi stessi e agli altri.
Come in mezzo alla nebbia, perdiamo i punti di riferimento, sia interiori che esterni a noi.
Spesso ho visto persone colte, che normalmente parlano un italiano perfetto e ricco anche di termini ricercati che, in preda all’ansia, sbagliano congiuntivi e condizionali.
Per quanto l’ansia ostacoli pesantemente la nostra comunicazione, possiamo riuscire a vincere!
- Innanzi tutto riconoscendola, in noi stessi e negli altri.
- E poi facendo appello alle tecniche di comunicazione. La conoscenza delle tecniche di comunicazione equivale ad trovare, nella nebbia dell’ansia, un camion che conosce perfettamente la strada davanti a noi: cominciamo a seguirlo e poco a poco la nebbia si dirada.
Anche l’ansia è un sentimento comune, legittimo, spesso presente quando andiamo dal medico.
- La persona in preda all’ansia è riconoscibile dalla sua difficoltà a star fermo. Probabilmente è quella che in sala d’attesa cammina su e giù, magari toccando gli oggetti che trova.
- Seduto davanti al medico, è probabile che continui ad avere piccoli movimenti, più o meno percettibili: a gambe accavallate dondola un piede, si tocca i capelli, picchietta con un dito sulla scrivania. Generalmente sono movimenti ripetitivi, come se in qualche modo cercasse di “cullarsi”.
- Nella fase di anamnesi le informazioni vengono “buttate fuori, non sempre coerentemente, è anche probabile che sbagliare qualche verbo o qualche termine: succede anche a chi normalmente parla in maniera forbita.
- Anche la respirazione manifesta chiaramente l’ansia, e se imparate a ricalcare il respiro vi accorgerete se la persona con cui parlate è in uno stato di ansia: sì, persino il vostro medico.
Esistono forme diverse di ansia, incluso un’ansia “sana” che ci permette di dare il meglio di noi in condizioni di emergenza.
Questa situazione è più frequente nelle persone che hanno una miglior sincronizzazione degli emisferi cerebrali, e in particolare in coloro che sono abituati alla meditazione (non c’è bisogno di essere esperti di yoga per imparare a meditare!). In queste persone spesso l’ansia induce ad innestare una sorta di “pilota automatico” che permette di agire nella maniera ottimale e, spesso, al termine dell’emergenza non si è in grado di descrivere esattamente cosa si è fatto. Amici e familiari sono solitamente in grado di dirvi se le vostre manifestazioni d’ansia sono produttive o distruttive, e da cosa potete riconoscerle.
In ogni caso è opportuno acquisire dimestichezza con le tecniche di comunicazione, e per l’ansia le migliori sono quelle che migliorano la comunicazione paraverbale. Infatti governando il respiro e la voce si riesce ad eliminare l’ansia distruttiva.
Perché non provare?

Se facessimo una classifica di pazienti modello gli italiani non sarebbero certo ai primi posti, lo sappiamo da anni. Sappiamo che gli italiani si auto riducono i dosaggi, terminano le cure prima di quanto ha detto il medico, non rispettano le posologie, … Ora, a tutto questo, si è aggiunta una sorta di auto-riduzione dei farmaci prescritti. Ma il vero problema è che ora tutto ciò che già accadeva, e molto di più, è originato dalle difficoltà economiche in cui versano molti italiani. E se prima le autoriduzioni di posologia o durata della terapia erano frequenti soprattutto nelle patologie acute, oggi la rinuncia alla terapia, o la sua drastica riduzione, avviene soprattutto nelle patologie croniche. E raramente il medico è a conoscenza della situazione: il paziente non ha la forza, o il coraggio, di dichiarare al medico la sua realtà. Ancora una volta, dunque, è il farmacista colui che ha maggiormente il polso della situazione, e che è chiamato, sebbene non ufficialmente, a supportare il paziente. Cosa può dunque fare il farmacista? Il mio parere personale è di creare una vera e propria rete di allerta, sostegno e valutazione che coinvolga il farmacista “di quartiere” e il medico di base, che abbia anche la possibilità di intervento reale nel fornire farmaci a chi, davvero, rinuncia alle terapie per motivi economici. È un sogno, lo so. Rimanendo su azioni concrete credo che il farmacista possa fare molto con le sue capacità di sostegno e consiglio, senza sostituirsi al medico. Credo anche che il futuro sia nello sviluppo di competenze di coaching per il medico e il farmacista. Competenze che permettono di motivare il paziente, supportarlo durante la terapia, finalizzare le cure, e ridurre anche i costi in numerose sfaccettature del sistema sanitario consentendo così di ricavare risorse per fornire terapie totalmente gratuite a chi, altrimenti, non può permettersele. Un sogno anche questo, ma più facile da raggiungere rispetto al precedente.

Non è, ovviamente, mia intenzione dare consigli su rimedi della nonna, antiche ricette o terapie alternative, ma solo riflettere, e farvi riflettere, su come rispondere al paziente che vi racconta di cure di supporto che, a lui, appaiono tanto efficaci. Le situazioni sono molteplici, e i rimedi sono infiniti. Si va dai consigli alimentari alle cure palliative, dai decotti alle sciarpe rosse: si usa di tutto e si sente di tutto. Talvolta sono i rimedi della nonna, altre volte sono antiche ricette lette su qualche rivista di salute, o consigli letti sul web o ricevuti da qualche amico. Siatene certi: la maggior parte dei vostri pazienti fa uso di qualche rimedio, integratore, elemento salutistico o alimento prodigioso, sia che ve lo racconti sia che stia in totale silenzio . Ci sono gli alimenti salutari, le medicine alternative, i rimedi tramandati in famiglia, le pubblicità … È chiaro che il medico dovrà valutare caso per caso, ma ci sono alcune raccomandazioni (dettate dal buon senso, oltre che dallo studio della comunicazione) che valgono sempre. Il primo consiglio è che è sempre meglio sapere tutto quello che il paziente assume o fa, soprattutto se siete il medico di famiglia che tiene le fila della sua storia clinica. Se contestate, sminuite, rifiutate o ridicolizzate ogni rimedio che i vostri pazienti ritengono efficaci ciò che otterrete non sarà l’eliminazione delle aggiunte, palliative o terapeutiche, ma solo e semplicemente il paziente smetterà di raccontarvi ciò che assume . Il secondo consiglio, strettamente correlato al primo, è che l’effetto placebo, nelle sue diverse forme, è un fattore fondamentale per la guarigione, di qualunque malattia. Visto che parliamo di rimedi della nonna citerò le parole di mia nonna, quando mi trovò (avevo circa un anno) a mangiare i chicchi d’uva raccolti da terra poiché non arrivavo ai filari: quel che non strozza, ingrassa. Quello che non fa male, va bene. Imparate quindi ad accettare quei rimedi che non fanno alcun danno, e accettateli di buon grado. Eliminate, invece, drasticamente ciò che è rischioso o, meglio ancora, sostituitelo con qualcosa che sia innocuo o davvero di supporto. Potrete così mantenere alto l’effetto placebo e, contemporaneamente, conservare la fiducia del vostro paziente e un alto livello di dialogo.

Dopo una laurea in chimica e tecnologie farmaceutiche e oltre 20 anni di carriera in aziende farmaceutiche multinazionali, e continuando ad aggiornarmi anche da quando faccio la libera professione, credevo si sapere molto sui placebo e sull’effetto placebo. Ma questo libro mi ha affascinato e fatto fare nuove scoperte fin dalle prime pagine. I suoi pregi sono moltissimi. I pregi pratici: è piccolo, leggero, economico. Può essere messo in borsa e letto ovunque. E anche queste piccole cose non sono da sottovalutare. È scritto benissimo. Si pone l’obiettivo di essere un testo divulgativo, e lo è davvero . Ricchissimo di cultura e di riferimenti storico – letterari – filosofici manca totalmente di pomposità o frasi contorte che spesso si trovano in questo tipo di libri. Qui c’è la cultura vera. Einstein diceva “ Non hai veramente capito qualcosa fino a quando non sei in grado di spiegarlo a tua nonna ”, affermazione che condivido appieno perché chi sa davvero sa anche semplificare i concetti. Fabrizio Benedetti sa. Sa spiegare, sa affascinare. E il libro è anche affascinante per i contenuti, il rigore scientifico. È imperdibile per tutti coloro che lavorano in ambito salute, ed è utile per tutti.

Il titolo completo del libro è Intelligenza emotiva Cos’è e perché può renderci felici. Daniel Goleman è sicuramente il più autorevole esperto mondiale di intelligenza emotiva. Il libro viene talvolta dichiarato “fuori catalogo”, ma vi assicuro che si trova ancora, sia in libreria che per gli acquisti on line. Queste le notizie pratiche. E poi, che dire? È interessante, scritto bene, leggibilissimo. E, soprattutto, imperdibile per chiunque abbia interesse per le relazioni umane, per chi educa, collabora o guida altri esseri umani.