Convincere è manipolare?
Dov’è il confine tra linguaggio persuasivo e manipolazione?

Si tratta di una domanda frequente e, vi assicuro, non è semplice rispondere, ma ci proverò.
Il primo, e più solido, confine tra convincere e manipolare è nei principi etici che, in pratica, si traducono nelle intenzioni.
Chi ha etica scarsa e vuole manipolare, sicuramente manipola, sia che ottenga il risultato che desidera sia che si limiti a provarci.
Eppure, per quanto paradossale, il problema non è davvero grave. Costoro sono spesso identificabili, talvolta si rivelano dei veri e propri truffatori, al punto che è la stessa legge che ci tutela, o dovrebbe farlo. E poi, spesso, siamo persino fin troppo prevenuti, al punto che quasi a nessuno viene in mente di considerare pienamente privo di manipolazione il discorso di un politico in campagna elettorale o di un avvocato, di un promotore finanziario, …
E poi chi si pone la domanda su dove finisce il linguaggio persuasivo ed inizia la manipolazione è sicuramente un individuo che ha principi etici e che non desidera manipolare. Ed è a costoro che devo un risposta.
Qualcuno dichiara che “se lo faccio per il suo bene non è manipolazione”, e questa convinzione è particolarmente frequente da parte dei genitori. Mi spiace, ma non sono d’accordo: alcune delle peggiori manipolazioni sono state fatte seguendo questa convinzione. Salvo casi molto, molto, particolari, è impossibile stabilire quale sia il bene di un’altra persona.
Certo, se ragioniamo su un farmacista o su un medico che convince un paziente ad assumere correttamente una terapia o ad acquisire uno stile di vita più sano è decisamente più semplice stabilire i confini tra convincere e manipolare ed è persino accettabile il concetto del “lo faccio per il suo bene”.
Però … navigate su internet alla ricerca di informazioni sulla salute, persino quelle convalidate da titoli di studio, e vi accorgerete che non è difficile trovare vere e proprie forme di manipolazione.
Quindi, ci risiamo.
Peraltro imparare il linguaggio persuasivo, nelle sue diverse forme, è utile e necessario per molte professioni, o anche solo per difendersi dalle manipolazioni. E, una volta imparato, non lo si tiene nel cassetto, ma si usa costantemente. Dunque il dilemma diventa più profondo: come faccio a capire se io varco il confine tra persuadere e manipolare?
Non ho risposte assolute, ma posso raccontarvi quali sono i miei parametri, pur sapendo che qualcuno tenderà a fraintendermi.
Io parto dal presupposto che, comunque sia, lo faccio per il mio bene. In un passato articolo, Le intenzioni positive, ho raccontato che uno dei presupposti della programmazione neurolinguistica è che sempre e comunque ci comportiamo con modalità che, secondo il nostro inconscio, ci portano dei benefici. Spesso per confutare questo concetto mi vengono portati ad esempio persone come Madre Teresa di Calcutta. Rispondere è facile: lei stessa ha più volte dichiarato di fare sempre ciò che la rendeva estremamente felice. Se sono pienamente consapevole delle mie intenzioni positive, in piena onestà, senza barare con me stessa, posso anche comprendere quando sto varcando il confine tra convincere e manipolare. E, a questo punto, i principi etici devono fare il loro lavoro.

La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …

Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.






