Ribaltiamo i modelli mentali: dentro o fuori dalla zona di comfort
Quante volte, soprattutto nell’ultimo anno, hai visto immagini, post, articoli, che invitano ad uscire dalla zona di comfort?

Quest’anno è decisamente andata di moda: la zona di comfort
o, meglio, l’invito ad uscire dalla zona di comfort
perché è là, fuori, che si trovano le aree del miglioramento, della crescita, dell’innovazione, della responsabilità, della gioia. Là, fuori, c’è il meglio!
Siamo sicuri?
Io, con un pizzico di polemica, io che sono una grande rompiscatole, io che amo sviscerare le cose ridendoci sopra, vorrei entrare in merito alla questione.
Lascio ad altri la spiegazione dettagliata della zona di comfort: non intendo scrivere un libro, basta digitare zona di comfort su Google e si trovano moltissime spiegazioni (alcune chiare e utilissime, secondo me): per queste mie riflessioni basta quello che il termine zona di comfort ti evoca, è sufficiente il tuo sentire.
Comincio da qui:
da febbraio 2020 siamo più o tutti, come individui e come collettività, fuori dalla zona di comfort. Siamo scomodi, qualcuno è fuori un balcone, parecchi hanno vissuto stati di ansia, e poi di depressione, molti stanno re-inventando se stessi e il proprio lavoro.
Se uscire dalla zona di comfort, mettersi alla prova in situazioni che non conosciamo alla perfezione, che rappresentano una sfida, che non ci fanno stare del tutto tranquilli, ci porta a crescere, dovremmo vedere intorno a noi milioni di persone più consapevoli, evolute, felici e creative.
Sto cercando.
Ma dalle mie parole, dalle mie definizioni, manca qualcosa.
Non si cresce automaticamente perché qualcosa o qualcuno ci ha sbattuto fuori dalla zona di comfort. Bisogna uscire consapevolmente, scegliere di uscire.
Ecco: così va meglio.
Cambiamo un attimo prospettiva e andiamo ad osservare cosa accade in caso di malattia grave.
Molti, a partire da Bebe Vio, e persino la sottoscritta, hanno scoperto nella malattia una strada per la felicità. Certo, io sicuramente avrei fatto a meno della malattia, però mi è servita, mi è persino stata utile. Vedi, Carla, tu che rompi sempre, che uscire dalla zona di comfort serve?
Forse. Conosco anche persone che dopo una diagnosi decisamente antipatica si sono incattivite, ma non è questo che voglio raccontare.
Nella malattia ci sono giornate, settimane, mesi, in cui vivere è scomodo, alzarsi la mattina non è sempre possibile e, quando lo è, è faticoso. Ciò che serve, allora, è costruirsi una zona confortevole, sia fisica che mentale, uno spazio di pace, di ben-essere. Altro che uscire dalla zona di comfort! Per settimane ho lavorato per costruirmene una che funzionasse nella mia realtà modificata!
E ancora. Forse hai seguito Criminal minds.
C’è un episodio in cui Morgan viene torturato. Sopporta la tortura rifugiandosi in una speciale zona di confort mentale, un luogo perfetto dove può convocare le persone che ama (sì, anche il padre che fisicamente è deceduto) e in cui nessuno può realmente danneggiarlo.
Io ho creato il mio primo Luogo perfetto molti anni fa, durante un corso meraviglioso, e ora lo insegno come esercizio: funziona.
Aggiungo un ultimo elemento.
Uscire dalla zona di comfort presuppone flessibilità, curiosità, ricerca dell’innovazione, accogliere punti di vista diversi dai nostri, percorrere strade ignote. Fuori dalla zona di comfort sei amico del dubbio, e non ti riesci a sentirti figo, se esci davvero.
Riassumendo: c’è un tempo per creare o tenersi stretta la zona di comfort e un tempo per uscirne. E, secondo me, l’unica costante è cercare di ampliarla.
Se riesco ad accogliere ogni situazione, possibilità o inghippo, con la consapevolezza di poterlo affrontare, se includo ogni cosa o persona nel mio mondo, pur riservandomi il diritto poi di buttar fuori qualcuno, se il mio principale desiderio è quello dell’armonia con il tempo e l’universo, la mia zona di comfort è estremamente ampia e dilatabile all’infinito. Nulla mi è davvero ostile, ma ogni cosa o evento ha ragione di essere. E io non ho bisogno di uscire dal ben-essere, ma di includere il nuovo e il diverso nel mio mondo e nel mio ben-essere.

La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …

Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.






