Ci si può motivare da soli?
Dobbiamo proprio aspettare che il capo ci motivi?

Ci si può motivare da soli? La risposta è assolutamente sì.
Beh, ad essere sinceri, a dire tutta la verità, ma proprio tutta, a rischio di essere detestati, la motivazione può arrivare solo da noi stessi.
Lo so che sto andando sia contro il pensiero comune che contro un’infinità di libri, molto convincenti e ben scritti.
Sto anche, almeno in parte, andando contro i miei stessi interessi. Infatti molte aziende ritengono che un dirigente (e io ho fatto il dirigente d’azienda fino a pochi anni fa) serva soprattutto per gestire e motivare i dipendenti.
Ma non è vero!
Tutto ciò che possiamo dire o fare per motivare un’altra persona è fondamentalmente un palliativo, fornire un placebo, che magari, se siamo bravi, ha qualche effetto momentaneo, ma non riesce mai ad essere risolutivo. Verso gli altri possiamo quindi aiutarli a trovare motivazioni, ma di questo parleremo un’altra volta.
- Possiamo motivare noi stessi. Siamo l’unico e vero elemento di motivazione di noi stessi.
Come fare?
Supponiamo di voler motivare noi stessi in relazione al nostro lavoro.
Lasciamo stare, almeno per il momento, la motivazione per affrontare prove o cambiamenti particolari, o per metterci a dieta o smettere di fumare: tutto ciò implica una serie di meccanismo complessi.
Motivarci per qualcosa che fa già parte della nostra routine è invece relativamente più semplice, anche se può sembrare un paradosso.
La domanda è ora: Come possiamo trovare motivazione per fare il nostro lavoro?
Innanzi tutto bisogna volerlo fare.
Lo so, sembra una fesseria. Però provate a misurare quanto tempo, in una normale settimana, dedicate a spiegare o spiegarvi perché il vostro lavoro non vi piace, cosa non funziona, cosa vi fa incavolare, rispetto a quello che dedicate a trovare aspetti positivi del mestiere che fate. In genere il rapporto è di 10 a 1 (10 minuti di negatività per ogni minuto di aspetti positivi).
E questo quando tutto va bene.
Quindi: per trovare motivazione bisogna partire da una lista di aspetti positivi.
- Impegnatevi per 10 giorni a trovare ogni giorno almeno un motivo per cui vi piace fare il vostro lavoro.
Se proprio non ci riuscite, fate una lista di lavori alternativi e, per ciascuno di questi, trovate 10 motivi a favore e 10 motivi contro.
Se, nel fare questo, riuscite solo a pensare come sarebbe bello vincere il superenalotto e avere abbastanza soldi da non dover lavorare, andate a cercare su Internet che fine hanno fatto la maggior parte dei vincitori noti e, se ancora non basta a distogliervi, immaginate una vostra giornata tipo dopo 5 anni da ricchi. Io ci riesco benissimo, ma mi sono resa conto che riprenderei buona parte del mio lavoro, ovviamente senza l’assillo del dover guadagnare. Sicuramente sarebbe bello, ma viste le scarse probabilità di vittoria al superenalotto, preferisco usare le informazioni raccolte come motivazione per fare quello che faccio.
Ora si tratta di passare alla fase 2. Armati della vostra lista a favore del vostro lavoro, identificate cosa migliorare, e da qui passate al come migliorare i diversi aspetti, già positivi, del vostro lavoro.
Non credo sia il momento di annoiarvi con le prove scientifiche del come e perché questi semplici mezzi funzionano, ma il fatto è che funzionano.

La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …

Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.






