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Compliance: cos’è?

Talvolta c’è confusione su cos’è la compliance.

Compliance è l'aderenza di un paziente alle prescrizioni mediche, farmacologiche o non farmacologiche (dietetiche, di regime di vita, di esami periodici di monitoraggio)

È ormai un termine di uso comune in ambito sanitario, ma spesso viene usato o in maniera restrittiva o senza comprenderne appieno le implicazioni. In italiano il termine compliance viene tradotto con “aderenza alla terapia” e viene spesso interpretato come ubbidienza del paziente. La situazione è un po’ più complessa e due interessanti definizioni, simili, ma non uguali, ne danno l’idea.

Entrambe le descrizioni di compliance vengono dall’enciclopedia Treccani, e credo che nessuno possa negarne l’autorevolezza. La prima l’ho trovata nel Dizionario di Medicina:

  • Adesione del malato alle prescrizioni mediche e ai trattamenti in generale previsti nella gestione di una determinata forma morbosa. Esprime anche, in senso lato, la volontà di collaborazione con le varie strutture dell’organizzazione sanitaria nell’iter di un predefinito schema terapeutico (per es., integrazione di radioterapia, chirurgia, chemioterapia nel trattamento di alcune neoplasie). Il tema della compliance è complesso e riguarda la relazione tra medico e assistito. In generale i fattori critici della compliance sono il tipo di malattia (acuta o cronica o con tendenza alle recidive), la struttura culturale del malato (livello di scolarità e comprensione del problema, presenza di ostacoli religiosi, disponibilità economica), il ruolo del medico (chiarezza della prescrizione, capacità di definire lo scopo del trattamento e il livello di successo dello stesso, descrizione dei rischi e degli effetti collaterali di una terapia), interferenza ambientale (tipo di vita, lavoro, ruolo dei familiari). Il grado di compliance può essere variamente considerato ed è parametro molto importante sia nella gestione clinica sia nella valutazione di protocolli sperimentali, in relazione al tipo di indagine e alla corrispondenza tra prescrizione e risposta psicologica del malato.

La seconda definizione viene, invece, dal Dizionario della scienza e della tecnica, sempre dell’enciclopedia Treccani:

  • Compliance. Termine inglese che significa condiscendenza/acquiescenza e che in medicina si riferisce alle modalità adottate dal paziente nell’eseguire le prescrizioni del medico; in particolare sottolinea il gradimento e lo spirito collaborativo verso il programma terapeutico. Soprattutto nel caso di terapia farmacologica, la compliance indica la disponibilità del paziente ad assumere il farmaco con la posologia (dosi, modalità e tempi di assunzione) stabilita dal medico, nonostante l’insorgenza di possibili effetti collaterali. La qualità della comunicazione tra medico e paziente, perciò, la qualità della relazione terapeutica che il medico è capace di costruire, è la causa principale della compliance del paziente; essa dipende dalla capacità psicologica del medico di comprendere i bisogni e le circostanze in cui si trova il paziente, di comunicare con lui in modo non autoritario, empatico e tuttavia professionale. I contenuti della comunicazione più efficace ai fini di una buona compliance, devono riguardare non soltanto gli aspetti tecnici della terapia ma anche dettagliate spiegazioni sulla natura del disturbo e specifiche rassicurazioni sul fatto che le difficoltà del paziente saranno accolte e discusse costruttivamente.

L’Agenzia Italiana del Farmaco pubblica con regolarità il Rapporto OsMed (Osservatorio sull’impiego dei medicinali) e da qualche anno ha inserito la valutazione delle percentuali di pazienti aderenti al trattamento quanto sono in terapia con specifici classi di farmaci. Il calcolo è complesso, gli indicatori sono molteplici, quindi la discussione tra esperti potrebbe essere davvero lunga, tuttavia se prendiamo questi dati come parametro di raffronto tra loro anziché come valore assoluto possiamo ritenerli un indicatore di compliance per le terapie o le patologie.

Scopriamo così che quasi il 60% dei pazienti in trattamento con antiipertensivi è aderente al trattamento, mentre la percentuale scende sotto il 50% se il trattamento è con statine e scende ulteriormente sotto il 40% quando si tratta di terapia con antidepressivi, e crolla intorno al 15% nei pazienti in trattamento con farmaci per le sindromi ostruttive delle vie respiratorie.

Nel 2003 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un interessante volume, tradotto e pubblicato in italiano nel 2006, dal titolo Adesione alle terapie a lungo termine: problemi e possibili soluzioni. Vi assicuro che la lettura è decisamente utile e illuminante!

La figura mostra i cinque fattori identificati che influenzano l’adesione alla terapia, e che vengono poi esaminati nel volume sia come elementi causativi che ce possibili soluzioni.

Nel testo, reperibile anche su internet, potete trovare spiegazioni e suggerimenti molto interessanti.

Va anche ricordato che molto si può fare, nel quotidiano per migliorare la compliance e dare, anche, un piccolo contributo davanti ad uno dei maggiori (e più costosi) problemi esistenti: si calcola che il costo legato alla non aderenza alla terapia superi, nei Paesi occidentali, l’intera spesa che il sistema sanitario affronta per i farmaci

Molto, moltissimo, è legato al dialogo tra paziente e terapeuta, alla comunicazione tra paziente e medico o paziente e farmacista.

Migliorare la comunicazione è forse una piccola soluzione, forse, ma attuabile.

Autore: Carla Fiorentini 27 gennaio 2025
Se due individui sono sempre d'accordo su tutto, vi posso assicurare che uno dei due pensa per entrambi. - Sigmund Freud.
Autore: Carla Fiorentini 19 gennaio 2025
La comunicazione non verbale e paraverbale sono in diretto collegamento con il nostro inconscio. Così, conoscere almeno i primi rudimenti di comunicazione non verbale aiuta a conoscere meglio gli altri, interpretare il loro pensiero, comprendere i loro bisogni. Aggiungo, per chi ha già qualche conoscenza di programmazione neurolinguistica, che la postura, i movimenti, il tono di voce, contraddistinguono le tre tipologie: visivo, uditivo e cinestesico. Ciò che, invece, probabilmente tutti sappiamo, ma non ci soffermiamo mai a riflettere in merito, sono i collegamenti tra stato d’animo ed elementi di comunicazione non verbale, e come questi possano davvero aiutarci a vivere meglio. È importante ricordare che esiste un collegamento reciproco tra stato d’animo e non verbale . Mi spiego meglio. Qualunque sia la nostra postura abituale, quando siamo tristi o preoccupati la nostra prima, spesso inconscia, reazione è quella di abbassare le spalle, incassare la testa, abbassare i bordi delle labbra (una sorta di sorriso al contrario). Quando siamo allegri la nostra postura è esattamente l’opposto. E allora? Testa alta, sorriso stampato, spalle bene in fuori: credetemi, non risolve i problemi, ma cambia subito l’umore, e lo spirito con cui affrontare quello che non va. Analogamente: se siamo in uno stato d’animo d’ansia il respiro si fa più corto e affrettato, il tono di voce più acuto e le parole escono molto più in fretta. Uno sforzo volontario per respirare a pieni polmoni, modulare il tono di voce e parlare più lentamente … e l’ansia si attenua. Provare per credere!
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A quasi tutti è capitato di dirlo o di sentirselo dire: facciamo qualche riflessione in merito.
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